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    Fortunalia (Arvalia Vol. 1) (Italian Edition)

    Por Publio Ovidio Nasone

    Sobre

    Publio Ovidio Nasone (43 a.C. - 18 d.C.) fu un poeta fortunato. Denari e successo arrivarono che era giovane, e scriveva come un treno, con la facilità di chi ama il suo lavoro. Amava le donne di Roma e - soprattutto - le donne di Roma amavano lui: bello come il sole, baciato dalla natura, tutte se lo contendevano e lui non aspettava altro che dire un sì. E così ci volle davvero un attimo per scrivere le avventure galanti delle Eroine e comporre nelle Metamorfosi il perpetuo leggero scorrere delle cose. Intanto a Roma c’era la guerra civile, ma questo non era che un dettaglio, in una vita complessivamente felice.
    Poi venne il severo Augusto, e cambiò tutto. Il Princeps cominciò a fare ordine nella pruriginosa società romana. E Ovidio capì subito che il vento era cambiato. Iniziò a scrivere i Fasti, un innocuo manuale sulle ricorrenze religiose e civili, qualcosa di simile a un odierno Guida a feste, sagre e mercatini. Con metodica operosità scrisse il libro sulle ricorrenze di gennaio, poi quello di febbraio, marzo, e avanti dritto fino a giugno.
    Nella pagina del 24 giugno si parla della Dea Fortuna, la cui festa annuale si tiene in località Pietra Papa, più o meno dove oggi a Roma c’è ponte Marconi, come ha confermato una felice campagna di scavi del 1939. Il rito inizia la notte del 23: un sacerdote propizia l’avvento della Dea, arriva l’alba, si fa giorno, e comincia la festa di popolo: si scende a frotte verso il Suburbium, a piedi o i più fortunati in barchetta, poi si mangia, si beve, e, sulle barchette coperte appositamente di ghirlande, i giovani fanno l’amore. Dopo tre giorni di baldoria - e dopo aver riflettuto sul fatto che chi non ha niente ma è ricco di speranza è in fondo un uomo felice - si riprende la via di casa. Fortuna, come molti dei numi arcaici di Roma, è una divinità doppia, cioè una cosa e il suo contrario: è la dea del caso fortuito e della buona sorte insieme, quella bendata che non fa distinzioni fra servi e re, ma che se decide sa benissimo dove e da chi andare a metter mano. Non c’è modo di sapere quando arriverà: si sa solo che prima o poi passa, e, se la si invoca, arriva prima. Fortuna è popolarissima tra i ceti popolari e gli schiavi: gli ultimi, quelli che non hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare, proprio come Servio Tullio, che nato da una schiava divenne re.
    Al tempo di Augusto, e c’era da scommetterlo, il culto pubblico della Dea era avversato. Tutto suggeriva insomma ad Ovidio di essere assai cauto nel parlare di questa dea, sebbene la tentazione di omaggiare la fedele amica coi suoi versi migliori fosse davvero forte. E dunque, mentre Ovidio scrive del 24 giugno, succede che qualcosa va storto. La Storia non ci concede di sapere esattamente cosa, né se la Fortuna c’entri o no: arrivò improvviso l’ordine di relegatio, cioè un invito perentorio a lasciare Roma, destinazione Mar Nero, ai confini dell’Impero. Gli storici hanno versato fiumi di inchiostro, senza cavarne un ragno dal buco: l’error, il fatale errore di Ovidio, rimane un mistero. Si parlò di una storia di donne finita male, o di un contrasto con l’Imperatore, o di un complotto di cui Ovidio, secondo le versioni, sarebbe stato testimone o protagonista. O potrebbe forse anche trattarsi di un mix di tutte queste cose insieme. Fatto sta che Ovidio andò a Tomis (l’attuale Costanza in Romania) e lì rimase lamentosamente per dieci anni, tenendosi ben cucito il segreto, nella speranza un giorno di poter tornare.
    Dall’esilio Ovidio revisionò i Fasti aggiungendo qua e là qualche verso, ma l’opera rimase incompiuta. Ne leggiamo oggi, estrapolati in questa monografia, i 9 carmi dedicati alla Dea dei capovolgimenti di destini, in formazione 5-3-1: 5 sono quelli scritti a Roma, 3 dalle rive del Mar Nero, 1 non pervenuto. Ovidio non tornò mai più a Roma. La Fortuna, purtroppo, gli aveva voltato le spalle.
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