La Camorra potrebbe esser definita l'estorsione organizzata: essa è una società segreta popolare, cui è fine il male. È utile studiarla da vicino, non solo per osservare i costumi ancora poco conosciuti e offrire qualche singolarità di più alla curiosità del pubblico, ma sopratutto per mostrar i veri ostacoli che l'Italia incontra a Napoli. I pubblicisti stranieri, quelli in specie, che a profitto di certe teorie e forse di certe ambizioni hanno avversato l'unità italiana, attribuiscono questi ostacoli a non so quale opposizione sentimentale e politica. Scrivono tutti i giorni che l'Italia occupa il Napoletano senza possederlo, imponendosi alle popolazioni che la respingono e bramano esser da lei avulse. Di qui concludono che bisogna conservare al Papa il suo poter temporale.
Per rispondere a questi strani errori, basta porre nettamente la questione. Per Italia io non intendo la tal dinastia, il tale stemma, la tale provincia del settentrione, cui si è annessa la penisola intiera. Intendo il gran principio, la grande associazione nazionale, che, dopo quattordici secoli di conati infruttuosi, comincia a trionfare nei giorni difficili in mezzo ai quali viviamo. Le grandi questioni sono come i capolavori della statuaria: se si vuole comprenderle e apprezzarle sanamente nella loro splendida realtà, bisogna porle sul loro piedistallo.
Tale è l'Italia. Ora qual è il nemico che la minaccia nelle provincie meridionali? È forse il partito murattista? - ma egli si compone di un sol uomo - È forse il partito autonomista ? ma niuno ignora che la parola autonomia è una maschera a tre faccie, sotto la quale tessono intrighi i malcontenti, i vinti, i disillusi. - È forse il partito federalista? ma esso non esiste che in Francia, o meglio nella France, dove si fabbrica ogni mattina una nuova combinazione per conservare il regno di questo mondo a Pio IX.
È forse il partito borbonico? sì e no. No, quando i borbonici sono onesti, vale a dire antichi servitori, fedeli alla causa de' vinti, al re caduto, i quali si contentano di protestar col silenzio e colle lacrime contro l'usurpazione, così la chiamano, della nuova dinastia. Sì, quando non si contentano di protestare, ma vogliono combattere, e, conoscendo la debolezza e impotenza propria, suppliscono alle forze di cui difettano sollevando ed assoldando tutti i malfattori di queste contrade.
Non sono dunque i partigiani di Murat, dell'autonomia, della federazione e de' Borboni che minacciano l'Italia meridionale, sibbene i malfattori che la reazione eccita ed assolda. La guerra non è politica, ma sociale. L'Italia non difende soltanto il suo diritto e la sua proprietà, le sue idee e i suoi interessi; difende la società che è causa a tutti comune, e la difende contro tutte le bugiarde voci d'anarchia e di dissoluzione, che i pubblicisti stranieri a torto considerano come l'opinione nazionale.
No, mille volte no; mi piace dichiararlo, dando principio a questo libro; non è l'opinione nazionale che resiste; non è l'opposizione popolare che si nasconde ne' boschi per derubare i passeggieri e dar l'assalto alle Diligenze: non è l'opinione pubblica che ieri (1 ottobre 1862) armava a Palermo una brigata di pugnalatori, e la gettava all'improvviso assetata di sangue sulla popolazione. No, mille volte no; non può credersi che la civiltà sia rappresentata dal Piemonte, la barbarie dall'ex-reame delle due Sicilie. Non bisogna prendere le quisquilie di campanile fra Napoli e Torino per causa e nemmeno per occasione di questi attentati feroci. Ma è d'uopo persuadersi che v'hanno due elementi l'uno di fronte all'altro: da un lato l'Italia, dall'altro il disordine; è d'uopo persuadersi che per l'Italia parteggiano non solo quanti hanno una fede, un principio da tutelare, ma anche tutti coloro che hanno una famiglia, una zolla di terra da conservare.
Per rispondere a questi strani errori, basta porre nettamente la questione. Per Italia io non intendo la tal dinastia, il tale stemma, la tale provincia del settentrione, cui si è annessa la penisola intiera. Intendo il gran principio, la grande associazione nazionale, che, dopo quattordici secoli di conati infruttuosi, comincia a trionfare nei giorni difficili in mezzo ai quali viviamo. Le grandi questioni sono come i capolavori della statuaria: se si vuole comprenderle e apprezzarle sanamente nella loro splendida realtà, bisogna porle sul loro piedistallo.
Tale è l'Italia. Ora qual è il nemico che la minaccia nelle provincie meridionali? È forse il partito murattista? - ma egli si compone di un sol uomo - È forse il partito autonomista ? ma niuno ignora che la parola autonomia è una maschera a tre faccie, sotto la quale tessono intrighi i malcontenti, i vinti, i disillusi. - È forse il partito federalista? ma esso non esiste che in Francia, o meglio nella France, dove si fabbrica ogni mattina una nuova combinazione per conservare il regno di questo mondo a Pio IX.
È forse il partito borbonico? sì e no. No, quando i borbonici sono onesti, vale a dire antichi servitori, fedeli alla causa de' vinti, al re caduto, i quali si contentano di protestar col silenzio e colle lacrime contro l'usurpazione, così la chiamano, della nuova dinastia. Sì, quando non si contentano di protestare, ma vogliono combattere, e, conoscendo la debolezza e impotenza propria, suppliscono alle forze di cui difettano sollevando ed assoldando tutti i malfattori di queste contrade.
Non sono dunque i partigiani di Murat, dell'autonomia, della federazione e de' Borboni che minacciano l'Italia meridionale, sibbene i malfattori che la reazione eccita ed assolda. La guerra non è politica, ma sociale. L'Italia non difende soltanto il suo diritto e la sua proprietà, le sue idee e i suoi interessi; difende la società che è causa a tutti comune, e la difende contro tutte le bugiarde voci d'anarchia e di dissoluzione, che i pubblicisti stranieri a torto considerano come l'opinione nazionale.
No, mille volte no; mi piace dichiararlo, dando principio a questo libro; non è l'opinione nazionale che resiste; non è l'opposizione popolare che si nasconde ne' boschi per derubare i passeggieri e dar l'assalto alle Diligenze: non è l'opinione pubblica che ieri (1 ottobre 1862) armava a Palermo una brigata di pugnalatori, e la gettava all'improvviso assetata di sangue sulla popolazione. No, mille volte no; non può credersi che la civiltà sia rappresentata dal Piemonte, la barbarie dall'ex-reame delle due Sicilie. Non bisogna prendere le quisquilie di campanile fra Napoli e Torino per causa e nemmeno per occasione di questi attentati feroci. Ma è d'uopo persuadersi che v'hanno due elementi l'uno di fronte all'altro: da un lato l'Italia, dall'altro il disordine; è d'uopo persuadersi che per l'Italia parteggiano non solo quanti hanno una fede, un principio da tutelare, ma anche tutti coloro che hanno una famiglia, una zolla di terra da conservare.