Tutti dovrebbero conoscere il nome di Grazia Deledda (Nuoro, 1871-Roma, 1936), scrittrice sarda legata ad alcuni capolavori della letteratura italiana, insignita – unica donna in Italia – del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.
A dispetto della scarsa considerazione riservatale persino nelle antologie scolastiche (quanta ricchezza potrebbero trarne gli studenti liceali!), vale la pena riscoprirla oggi, fra le pagine di altri suoi libri meno conosciuti e menzionati, ma altrettanto degni di essere letti per la sorpresa che regalano, nella densità di una scrittura sospesa tra realismo e allusività. In linea con la grande letteratura europea, la Deledda accoglie l’idea di un universo psichico abitato da pulsioni e rimozioni, trasponendo nello spazio narrativo il ‛paesaggio dell’anima’, da cui affiorano ansie e inquietudini mediate soprattutto dalle costrizioni sociali e dai divieti morali. Come ne La danza della collana (1924).
Sul piano biografico ed esistenziale, questo splendido romanzo riflette una condizione personale di ripiegamento interiore e di allontanamento dal mondo, esplorando una dimensione a lei cara, di ‛poeta primitivo’, fonte di pensiero e di creazione artistica. Due i piani di interpretazione del testo: quello reale e quello simbolico, in una molteplicità di rimandi di senso, che necessitano di una lettura attenta e allargata ad altri testi e fonti – centrale è la presenza di archetipi jungiani – per essere colti appieno. Due i protagonisti, affiancati da personaggi che assumono per loro il ruolo di elementi rivelatori, funzionali al disvelamento e alla comprensione di aspetti cruciali di sé
È un guardare in faccia alla realtà riappropriandosi della vista interiore, finalmente rivolta a se stessi; altrimenti spesa a decifrare erroneamente il mondo esterno, in un assurdo teatro dell’esistere, cui nessuno può sottrarsi. Nel messaggio subliminale che la Deledda rivolge al lettore, però, non è contemplata una vera possibilità di riscatto, e gli eventi non celano alcuna spiegazione razionale, a dire che la vita rimane un insondabile mistero.
A dispetto della scarsa considerazione riservatale persino nelle antologie scolastiche (quanta ricchezza potrebbero trarne gli studenti liceali!), vale la pena riscoprirla oggi, fra le pagine di altri suoi libri meno conosciuti e menzionati, ma altrettanto degni di essere letti per la sorpresa che regalano, nella densità di una scrittura sospesa tra realismo e allusività. In linea con la grande letteratura europea, la Deledda accoglie l’idea di un universo psichico abitato da pulsioni e rimozioni, trasponendo nello spazio narrativo il ‛paesaggio dell’anima’, da cui affiorano ansie e inquietudini mediate soprattutto dalle costrizioni sociali e dai divieti morali. Come ne La danza della collana (1924).
Sul piano biografico ed esistenziale, questo splendido romanzo riflette una condizione personale di ripiegamento interiore e di allontanamento dal mondo, esplorando una dimensione a lei cara, di ‛poeta primitivo’, fonte di pensiero e di creazione artistica. Due i piani di interpretazione del testo: quello reale e quello simbolico, in una molteplicità di rimandi di senso, che necessitano di una lettura attenta e allargata ad altri testi e fonti – centrale è la presenza di archetipi jungiani – per essere colti appieno. Due i protagonisti, affiancati da personaggi che assumono per loro il ruolo di elementi rivelatori, funzionali al disvelamento e alla comprensione di aspetti cruciali di sé
È un guardare in faccia alla realtà riappropriandosi della vista interiore, finalmente rivolta a se stessi; altrimenti spesa a decifrare erroneamente il mondo esterno, in un assurdo teatro dell’esistere, cui nessuno può sottrarsi. Nel messaggio subliminale che la Deledda rivolge al lettore, però, non è contemplata una vera possibilità di riscatto, e gli eventi non celano alcuna spiegazione razionale, a dire che la vita rimane un insondabile mistero.