Bernard si è ispirato alla vita della Shelley, nata Wollstonecraft, e al suo appassionato amore per il poeta Percy Shelley, ma si è servito del suo personaggio per una creazione in chiave di ballata, dove Mary Shelley prende corpo in scena narrando la sua vita in una forma di esaltazione onirica in alternanza con momenti di narrazione storico-romanzesca in cui lo stesso autore dà voce a notizie storiche ed a riflessioni esistenziali.
In una atmosfera fosca e fumosa, degna di un film dell’horror, la diafana figura dell’attrice che impersona Mary – Valentina Corti dai grandi occhi espressivi di intensi sentimenti – si muove inquietamente cullando un neonato. La sua è una sorta di confessione, di difesa e di autocolpevolizzazione al tempo stesso. E’ lei stessa a farsi narratrice di un’esistenza segnata dalla sciagura e dal dolore. Fin dalla nascita è una creatura solitaria, privata dell’amore della madre, morta dandola alla luce; spretato ed ateo, il padre l’ha indotta ad una visione libera dell’amore fino alla trasgressione. Ed è così che appena sedicenne, innamorata del poeta Shelley, Mary va a vivere con lui, sposato, augurandosi che la moglie muoia, o addirittura immaginando che non sia mai esistita per poter avere tutto per sé l’uomo che ama. E’ un percorso di desideri luttuosi, di sogni agitati da incubi di morte quello che la fanciulla dall’aspetto delicato e gentile viene descrivendo senza essere frenata dal pudore nel ricordare e nel dire. E’ così che rivela i suoi aborti e i figli morti appena nati, descrivendone la fragilità con un certo compiacimento necrofilo, e la gioia perversa di sentire nella loro uscita dalla vita la sua liberazione e l’abbandono totale alla passione per il suo poeta. I piani dell’interpretazione che ne derivano esulano dal puro intento narrativo-descrittivo. Perché intanto la Shelley non è una donna qualunque, e la capacità poetica di raccontare sia i suoi incubi che il suo amore ne mettono in risalto la forza metaforica del dire. C’è poi il graduale raggiungere, attraverso l’esame della sua esistenza solcata dai lutti e dalla sofferenza spirituale, di una forma di creazione del male che sembra liberarla atrtraverso la scrittura fantastica di quel personaggio che, da quei primi decenni dell’ Ottocento, ha affascinato fino ad oggi i lettori e poi gli spettatori di tutto il mondo. Dai giorni sciagurati della sua vita tutta protesa alla passione per Shelley – e quando la moglie del poeta viene trovata morta in un boschetto è la gioia ad invadere Mary che finalmente può sposare il suo grande amore, diventato la Shelley – ecco nascere nella sua mente nutrita di letture cimiteriali quel Frankenstein che forse venne alla luce anche per influenza di lord Byron, con il quale la coppia passò vari periodi di vacanza, in particolare a Ginevra, sul lago dove il famoso scrittore aveva affittato una sontuosa villa. Nella suggestione del paesaggio ginevrino, fra foreste cupe e montagne scoscese, Mary dà vita ad un essere messo insieme attraverso pezzi di cadaveri a cui l’inventore – è lui a chiamarsi Frankenstein, ma il nome verrà poi attribuito alla creatura mostruosa – dà vita per sperimentare la propria forza creativa, in una sorta di sfida a Dio.
In una atmosfera fosca e fumosa, degna di un film dell’horror, la diafana figura dell’attrice che impersona Mary – Valentina Corti dai grandi occhi espressivi di intensi sentimenti – si muove inquietamente cullando un neonato. La sua è una sorta di confessione, di difesa e di autocolpevolizzazione al tempo stesso. E’ lei stessa a farsi narratrice di un’esistenza segnata dalla sciagura e dal dolore. Fin dalla nascita è una creatura solitaria, privata dell’amore della madre, morta dandola alla luce; spretato ed ateo, il padre l’ha indotta ad una visione libera dell’amore fino alla trasgressione. Ed è così che appena sedicenne, innamorata del poeta Shelley, Mary va a vivere con lui, sposato, augurandosi che la moglie muoia, o addirittura immaginando che non sia mai esistita per poter avere tutto per sé l’uomo che ama. E’ un percorso di desideri luttuosi, di sogni agitati da incubi di morte quello che la fanciulla dall’aspetto delicato e gentile viene descrivendo senza essere frenata dal pudore nel ricordare e nel dire. E’ così che rivela i suoi aborti e i figli morti appena nati, descrivendone la fragilità con un certo compiacimento necrofilo, e la gioia perversa di sentire nella loro uscita dalla vita la sua liberazione e l’abbandono totale alla passione per il suo poeta. I piani dell’interpretazione che ne derivano esulano dal puro intento narrativo-descrittivo. Perché intanto la Shelley non è una donna qualunque, e la capacità poetica di raccontare sia i suoi incubi che il suo amore ne mettono in risalto la forza metaforica del dire. C’è poi il graduale raggiungere, attraverso l’esame della sua esistenza solcata dai lutti e dalla sofferenza spirituale, di una forma di creazione del male che sembra liberarla atrtraverso la scrittura fantastica di quel personaggio che, da quei primi decenni dell’ Ottocento, ha affascinato fino ad oggi i lettori e poi gli spettatori di tutto il mondo. Dai giorni sciagurati della sua vita tutta protesa alla passione per Shelley – e quando la moglie del poeta viene trovata morta in un boschetto è la gioia ad invadere Mary che finalmente può sposare il suo grande amore, diventato la Shelley – ecco nascere nella sua mente nutrita di letture cimiteriali quel Frankenstein che forse venne alla luce anche per influenza di lord Byron, con il quale la coppia passò vari periodi di vacanza, in particolare a Ginevra, sul lago dove il famoso scrittore aveva affittato una sontuosa villa. Nella suggestione del paesaggio ginevrino, fra foreste cupe e montagne scoscese, Mary dà vita ad un essere messo insieme attraverso pezzi di cadaveri a cui l’inventore – è lui a chiamarsi Frankenstein, ma il nome verrà poi attribuito alla creatura mostruosa – dà vita per sperimentare la propria forza creativa, in una sorta di sfida a Dio.