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    Re dei re, vol. 4 (di 4), il

    Por GATTINA, FERDINANDO PETRUCCELLI DELLA

    Sobre

    Sicuro Enrico di lasciar ben curate le sue cose di Germania a Federico di Staufen, senza mettere indugi prese le mosse per alla volta d'Italia. Il considerevole esercito seguivano assai tra vescovi, principi, duchi e signori di ogni grado, e per dovunque passava con le voci di plauso raccoglieva attestati di divozione e di omaggio. Segnatamente gl'Italiani, ahi pur troppo! che dalla venuta del re speravano messe di gloria e concessioni di libertà. Le schiere dei combattenti correvano a folla sotto le sue bandiere. Ogni Comune mandava le sue milizie cittadine. Ogni barone conduceva i suoi uomini d'armi e cavalcava al campo. Sicchè Enrico, giunto a Verona ove celebrò la Pasqua, si trovò a capo di esercito poderoso, il quale niente meglio desiderava che pugna, che vendetta dell'astioso pontefice. Dall'altro lato la contessa Matilde aveva messe insieme le sue bande e comandato ai suoi vassalli che, chiunque possedesse una spada ed un cavallo fosse atto a servirsene, la seguissero nella spedizione contra il re. Ed ella stessa, lasciate da banda le mollezze femminili, che veramente non conobbe mai troppo, lasciate da banda le discettazioni teologiche e le pratiche beate della divozione, vestì lorica e celata ed al campo di Mantova trasse. Le sue genti sovra i giachi di maglia e le corazze portavano corta tonica bianca divisata di croce nera, ed a foggia di croce l'elsa degli stocchi. Nei loro accampamenti non gironzavano cantoniere, giullari, istrioni, buffoni d'ogni maniera, e merciaiuoli. Invece, frati d'ogni colore a tutti i crocicchi alzavano panche, e fatto un po' di crocchio predicavano irate parole contro Enrico il Madianita, che veniva a contristare Israele, e seminare le discordie nelle terre di Canaan. E quei soldati severi nelle fisonomie e nella condotta, lungi dal rompersi a crapole su per bische e lupanari, e ad orgie ubbriache nelle osterie, nelle parole parchi, negli atti misurati, raccolti, a capo giuso, rassegnati, si ragunavano la mattina nel grande spianato del campo, dove il vescovo Anselmo di Lucca, uomo sulla taglia di Gregorio, celebrava la messa e trinciava loro benedizioni a iosa. Ed al tramonto cantavano in uno l'angelus prima di dispensarsi alle guardie dei valli e delle trincee. Matilde si teneva sempre in mezzo di loro, ne parlava il linguaggio, la più assidua nei lavori del campo, la più sagace nelle deliberazioni dei capitani, dei disagi improvvida, delle fatiche non schiva. Al conspetto di altrui, nelle assemblee, percorrendo a cavallo le tende, il suo volto era sereno perchè aveva posto confidenza in Dio. Ma la notte, ma nel silenzio ella non sapeva siffattamente imporre al suo cuore di posare tranquillo sul pensiero, che le sue truppe erano pochissime e mal proprie contro l'esercito di Enrico, precaria la sua posizione, pericolosa quella del papa, terribile quella del paese a lei soggetto, e che era odiatissima. E quell'odio, cosa strana, ha sopravvissuto al tempo. Anche oggidì, il contado la crede tristissima donna; inesorabile coi vassalli; imbertonnata dal papa con cui ebbe tresche lubriche nel tempo del suo marito Goffredo il gobbo; in commercio con i diavoli che le fabbricarono in una notte quaranta castelli; che facesse costruire torri e campanili per ordine del confessore, onde purgarsi di sue peccata; e che, infine, scoppiasse a Bianello, sull'altare, nel momento proprio in cui celebrava la messa, di cui papa Gregorio le aveva impartita facoltà. Le leggende su Donna Matildebrulicano nell'Emilia, gremita dai ruderi dei suoi castelli?e non una carezzevole, per questa donna sì carezzata dai papi, per questa donna che segnava, Mathilda gratia Dei, si quid est!Alle conseguenze di quest'odio vivissimo allora, si arrogeva che l'imperatore non le avrebbe punto perdonato la resistenza, ed il ritardo alla sua corsa vittoriosa sopra Roma. Nondimanco niuna debolezza tradì mai nè la condotta nè il carattere di lei. E forse non la si vide giammai più tranquilla che quando seppe Enrico in Italia, ed acquartierato a poche miglia dal suo Campo. Ella doveva resistere al primo urto del nemico. Matilde non era più nel fior della sua giovinezza. Ma l'età non aveva avuto che leggera presa sulla sua persona, perchè in lei, se i sensi favellarono talvolta, il cuore aveva sempre assolutamente taciuto. Ora ogni ruga sulla fronte, ogni lampo ottenebrato nello splendore degli occhi, ogni pallor sull'incarnato delle labbra, non sono che una fotografia degli spasimi del cuore. L'amore è una demolizione in permanenza. Laonde, al vederla, Matilde sembrava ancor una vergine a venti anni, come quelle madonne della scuola di Giotto che non hanno età perchè non hanno anima. Una serenità sovrumana splendeva sul suo sembiante, ma fissa, ma monotona come l'azzurro del cielo di oriente, ove un'aura non mormora, ove la vita sembra cristallizzata. Solamente quella serenità non era la purezza, non era l'innocenza, non era l'incoscienza del dramma della esistenza, era la fatalità rassegnata. La sua grande persona portava lo stigmata dell'inflessibilità dello spirito. Era rigida, era quasi petrificata. Nulla parlava in lei. Quella bocca, supremamente bella, che avrebbe attirati i baci degli angioli se fosse stata soave, viva, se il sangue vi avesse palpitato, non sembrava propria ad altro che a biascicare un ave maris stella o una condanna di morte, con eguale indifferenza. Quegli occhi che avrebbero avuto la profondità infinita dei cobalti del cielo d'Italia se la fiamma divina dell'amore li avesse fatti corruscare, erano ora stupidamente inespressivi, quasi fossero stati di cristallo. Quella fronte che sarebbe sembrata l'olimpo del pensiero e degli affetti, se Matilde fosse stata una donna, era levigata e pura come una lamina di ghiaccio, era muta come una sfinge. L'insieme di quella donna, che sarebbe stata la demenza della voluttà per l'armonia delle forme, era una maschera, era una larva, era un prodigio d'insensibilità, era un miracolo d'amore mancato. Iddio aveva obliato di mettervi una scintilla. Nulla in lei rivelava l'innocenza, quella che unicamente rende sì seducenti le madonne di Raffaello. La sua purezza significava ad ogni analisi che la era una negazione di sensibilità e di sentimento. L'aria beata che la circondava della sua aureola non era luminosa, non era come quelle brezze della sera delle coste della baia napoletana, che vi seducono, vi commuovono, vi elevano a Dio di cui sembrano il respiro. Tutto in Matilde tradiva la divota, l'ascetismo spinto al fanatismo. Però non il disprezzo della terra per elevarsi alla compenetrazione con Dio?con l'infinito?ma l'oblio della creatura?cioè l'oblio di tutto quanto soffre, pensa, ama, piange. Matilde teneva alla terra per la punta d'una spada, di cui aveva messa l'elsa in mano al pontefice?cioè per l'ambizione, per il dominio, per servirsi della creatura come il villano si serve dell'ingrasso per far germogliare le spighe nei campi, i fiori nel colto. Lenta a pensare, a muoversi; flemmatica nelle risoluzioni, quasi le scolpisse in un blocco di bronzo e perciò irremovibili; fisa con uno sguardo catalettico nello scopo, non comprendendo lo spasimo della carne e dell'anima; contando le miserie dell'esistenza come una elevazione verso Dio, e perciò, quando anco le comprendeva, rinculava dall'addolcirle; dando a tutti i sintomi del rigoglio della vita un significato di colpa e di degradazione?un eco del peccato o un peccato?considerando l'autorità come un'emanazione da Dio, e perciò incarnata nel papa, e perciò imperdonabile ribellione contro Dio quella contro il papa; Matilde fu nel suo secolo, fu pel suo popolo, era per i suoi vassalli in quell'ora come una lama di Toledo, che non brilla, non si spezza, non si riscalda onde percuotere, non resta mai curva, che è sottile, fina, fredda, elegante, graziosa, aristocratica, inesorabile, anche un vezzo od un ornamento se occorre, che non ha che la punta, e che dovunque tocca lascia uno stigmata, spicca il sangue, porta la morte?strumento sempre di castigo e di dolore. Matilde si era gittata innanzi ai passi di Enrico. Questi non si fece attendere e le mosse contro. Ella copriva Mantova e si preparava a resistere. I cittadini di Mantova le fecero dire dal loro vescovo ch'e' non volevano sottoporsi agli stenti dell'assedio, ma meglio sussidiarla di un corpo di truppa; altrimenti avrebbero mandate le chiavi della città al re, ed aperte le porte. Matilde si sentì costretta, sotto i baluardi della piazza, attaccare la battaglia. Allo spuntare dell'alba dunque ella uscì dalle mura alla testa del suo esercito. I Mantovani sorpresero il presidio, chiusero le porte, ed alzarono i ponti. Per lo che, la gente della contessa si vide nel partito di riscattare la vita con la vittoria o morire. Sull'ora di nona, con un tempo bellissimo, apparvero gli sfolgoranti stendardi del re, e la sua cavalleria coperta di ricche vesti. I soldati di Matilde rassegnati come un drappello di vittime, immobile, taciturno, col pensiero raccolto in Dio, stretti fra loro, li aspettarono. I cittadini di Mantova dall'alto delle torri e dai merli delle mura, assistevano all'affronto come da un anfiteatro ad una giostra. Il nemico arriva. Ma Enrico, sia che avesse pietà di quella mano di prodi con tanta tranquillità devoluti alla morte, sia che avesse paventato la loro disperazione, manda Baccelardo a parlamentare. Matilde, udito il messaggio del re che l'invitava alla piena dedizione, facendo lor salva la persona, la vita e la libertà, risponde: ?Dite al nostro bel cugino che noi ringraziamo la sua cortesia di proporci la pace a queste condizioni. Noi non abbiamo di modo alcuno forfatto all'impero, prendendo la spada contro chi viene ad opprimere il pontefice nostro signore, e la nostra libera religione. Se poi davvero gli prende pietà di noi e vuole esserci amico, che sgomberi tosto dai nostri Stati, che deponga gli sdegni ingiusti contro del papa, che ci offra una pace onorevole ed una guarentigia di mantenerla, e sa Iddio se noi desideriamo meglio, e se in segno di sudditanza non gli verremo perfino a far da mozzo al cavallo. ?Madonna, soggiunge Baccelardo, vostra bellezza mi perdoni se oso rammentarvi che non istà a voi proporre patti al vostro sovrano. ?E voi perdonatemi, ser cavaliere, se vi ricordo che non istà a chicchesia proporre condizioni da vinti, prima di aver guadagnata la vittoria. ?Ella è dunque la pugna che voi desiderate, madonna? ?Sa la regina degli angioli, ser cavaliere, se noi daremmo tutto per evitarla, meno che l'onore. ?Il ciel vi aiuti dunque, bella contessa, perchè dagli uomini poco vi resta a sperare. ?Amen, ser cavaliere. E si dicendo Baccelardo le baciava la mano e partiva. La pugna si attaccò. Non fu lunga. Fu sanguinosa, fu disperata, fu feroce come guerra di religione; la vita fu disputata accanitamente. Ma il numero prevalse. Enrico vinse. I pochissimi che avanzarono delle truppe di Matilde, fuggirono con lei. Allora i cittadini di Mantova mandano il loro vescovo ad Enrico onde proporgli la scelta, o di togliere la città per assedio, ovvero entrarvi con consentimento loro dopo aver giurato rispettare gli edifici e le fortificazioni alla città, gli averi, la libertà, la vita ai cittadini. Enrico accetta questi patti, e trionfante entra dentro Mantova in un nembo di fiori. Due giorni dopo, il re si recava a Padova ed a Cremona, città che non si volevano arrendere che a lui, ed a lui solo aprir le porte. Ed entrato Enrico da trionfatore, accolto con lo medesimo entusiasmo, concedeva loro privilegi e franchigie ed il favore del carroccio, che, in onor dell'imperatrice, i Padovani chiamarono Berta, i Cremonesi Bertacciola. Indi mosse per Firenze, distaccando dalle sue truppe dei manipoli onde andare ad occupare or questo or quello dei castelli e delle terre della contessa. Ma questa gli disputava l'invasione del suo territorio palmo per palmo, e ad ogni mutar di passo gli presentava contro ora una borgata cinta di mura, ora una rocca, ora un villaggio, costringendo il re a combattere ad ogni fermata. L'animosa donna vendeva poscia tutti i suoi gioielli, prendeva gran parte delle sue rendite e le mandava a Roma a papa Gregorio onde munir la città, assoldar gente, comprare i faziosi. Ella era restata povera?ella, l'erede di quel marchese Bonifazio che, avendo Enrico III lamentato di non trovare buon aceto a Piacenza, gliene aveva mandato in venti barili e su carretto di argento. Le sue possessioni devastate, rase le fortezze, smantellate le mura delle sue città, bruciati o presi i castelli, i suoi vassalli deserti. Del suo florido dominio insomma, così bello, così vasto, non restava che cadente scheltro. La fame minacciava il suo popolo; la moria lo decimava. E con tante sciagure, con un nemico ostinato di faccia, con tanto maligno volger di cose, la sua costanza non crollava, non mutava nei propositi, non tradiva neppure con un fastidio o una velleità la generosa causa che aveva sposata?avvilire l'imperatore, esaltare il pontefice! Chi le negherebbe il distintivo d'eroina dei tempi di mezzo? Quando seppe però che Firenze, dopo un mese di assedio, affamata e rovinata si rendeva; quando Lucca discacciava il suo vescovo, ne creava un novello ed invitava nella città Enrico; quando Montebello, Carpinete, Bibianello?Bibianello sì forte, sì popolato allora, oggi spelonca abitata solo da pulci?quando queste formidabili castella cedevano al vigore dell'oste avversa, essa raccolse i residui delle sue truppe e delle sue ricchezze, e trasse a Roma, risoluta difendere fino all'estremo la città eterna o morirvi. E la vigilia di Pentecoste Enrico, con l'arcivescovo di Ravenna, compariva sotto le mura di Roma ed accampava nei prati di Nerone, dirimpetto a Castel San Pietro.
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