Rosa e la Calabria Saudita
Di Enrico Bernard
Il titolo nasce da un’autoironica alliterazione Arabia-Calabria, quindi Saudita, con cui I Calabresi sottolineano come la loro “punta dell’italico Stivale” si allontani sempre più nel Mediterraneo, quasi staccato dal Continente non solo culturalmente ed economicamente, ma anche fisicamente (vedi l’interminabile costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio). Una isolamento che fa del resto comodo alle cosche per il controllo del territorio, della “cosa pubblica” e soprattutto della vita quotidiana dei cittadini.
Rosa si ritrova sola ad affrontare la vita: sola ad educare il figlio, sola nella sua “Calabria Saudita”, sola quando la “testardaggine” del marito, un giornalista impegnato contro la ‘ndrangheta, avrà conseguenze tragiche.
Rosa è una donna che ha il coraggio di amare fino in fondo, che non dimentica la bellezza della sua terra, di cui dipinge un ritratto tragicomico e appassionato, divertito e doloroso. In Rosa arde il desiderio di riscatto di un popolo dimenticato, abbandonato a sé stesso, tradito dal suo stesso sangue e dalla storia.
Giovanni Falcone sosteneva che per combattere le mafie non basta il contributo straordinario di pochi, ma serve l’impegno ordinario di tutti. Quello del magistrato siciliano era un invito a non volgere lo sguardo altrove, a non considerare le mafie un tabù da tollerare o sopportare in silenzio per prudenza, ma un letto pulcioso che infesta il Paese, un tanfo di stalla che ammorba l’aria e che si «arrimina» nella pancia come un animale inferocito. Un animale che uccide sogni e speranze, che ruba e distrugge. Sempre. Anche quando propone opportunità di lavoro dietro le quali si celano ricatti pagati con la perdita della libertà e della dignità (…) Le mafie continuano ad essere questo e altro in un paese ancora troppo distratto di fronte a certe tematiche. Lo stesso teatro, «a parte alcune nobili e in qualche caso eroiche eccezioni», come scrive Enrico Bernard, finora «è stato poco ispirato dal tema della mafia» (…) Proprio, Paolo Borsellino, prima di morire, aveva sottolineato l’importanza di non considerare la lotta alla mafia «una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale», capace di coinvolgere «tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità» (…) Le mafie, da sempre, sono minoranze organizzate. Se finora hanno avuto la meglio è perche sono state contrapposte da maggioranze disorganizzate. Forse è il momento di invertire questa tendenza, superando le reticenze, di cui parla Bernard, e coniugando la speranza auspicata dall'autore per spazzare i troppi silenzi di cui si servono i boss per rafforzare la loro presa sul nostro futuro.
Di Enrico Bernard
Il titolo nasce da un’autoironica alliterazione Arabia-Calabria, quindi Saudita, con cui I Calabresi sottolineano come la loro “punta dell’italico Stivale” si allontani sempre più nel Mediterraneo, quasi staccato dal Continente non solo culturalmente ed economicamente, ma anche fisicamente (vedi l’interminabile costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio). Una isolamento che fa del resto comodo alle cosche per il controllo del territorio, della “cosa pubblica” e soprattutto della vita quotidiana dei cittadini.
Rosa si ritrova sola ad affrontare la vita: sola ad educare il figlio, sola nella sua “Calabria Saudita”, sola quando la “testardaggine” del marito, un giornalista impegnato contro la ‘ndrangheta, avrà conseguenze tragiche.
Rosa è una donna che ha il coraggio di amare fino in fondo, che non dimentica la bellezza della sua terra, di cui dipinge un ritratto tragicomico e appassionato, divertito e doloroso. In Rosa arde il desiderio di riscatto di un popolo dimenticato, abbandonato a sé stesso, tradito dal suo stesso sangue e dalla storia.
Giovanni Falcone sosteneva che per combattere le mafie non basta il contributo straordinario di pochi, ma serve l’impegno ordinario di tutti. Quello del magistrato siciliano era un invito a non volgere lo sguardo altrove, a non considerare le mafie un tabù da tollerare o sopportare in silenzio per prudenza, ma un letto pulcioso che infesta il Paese, un tanfo di stalla che ammorba l’aria e che si «arrimina» nella pancia come un animale inferocito. Un animale che uccide sogni e speranze, che ruba e distrugge. Sempre. Anche quando propone opportunità di lavoro dietro le quali si celano ricatti pagati con la perdita della libertà e della dignità (…) Le mafie continuano ad essere questo e altro in un paese ancora troppo distratto di fronte a certe tematiche. Lo stesso teatro, «a parte alcune nobili e in qualche caso eroiche eccezioni», come scrive Enrico Bernard, finora «è stato poco ispirato dal tema della mafia» (…) Proprio, Paolo Borsellino, prima di morire, aveva sottolineato l’importanza di non considerare la lotta alla mafia «una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale», capace di coinvolgere «tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità» (…) Le mafie, da sempre, sono minoranze organizzate. Se finora hanno avuto la meglio è perche sono state contrapposte da maggioranze disorganizzate. Forse è il momento di invertire questa tendenza, superando le reticenze, di cui parla Bernard, e coniugando la speranza auspicata dall'autore per spazzare i troppi silenzi di cui si servono i boss per rafforzare la loro presa sul nostro futuro.